SIPARIO COME PAGINE DI UN ROMANZO – LE “SORELLE MATERASSI” AL TEATRO QUIRINO
Mentre un infreddolito pubblico romano prende posto sulle poltrone del Teatro Quirino, non c’è musica di sottofondo ad accoglierlo ma, quando si abbassano le luci di sala, le note di canti gregoriani riscaldano dolcemente l’aria di fine autunno. E come bambini intorno al focolare ci sentiamo rassicurati, ci sentiamo a casa. Merito delle voci esperte di Milena Vukotic e Lucia Poli, che escono da due sagome proiettate su un grande telo in proscenio. Le ombre di due simpatiche zitelle giocano con la grande ombra di un papa che parla in playback.
Era un sogno, e il velo si alza sulla tridimensionalità di uno scenario quotidiano di inizio XX secolo. È il laboratorio delle sorelle Materassi, Teresa e Carolina, rinomate sarte. Lavorano alla biancheria dell’alta borghesia di Coverciano, sobborgo fiorentino. In casa vive anche la cinica Giselda (Marilú Prati), disillusa dagli uomini, e per loro lavora la saggia domestica Niobe (Sandra Garuglieri). In questo contesto solitario e monotono è il bel ventiduenne Remo (Gabriele Anagni), figlio di una terza sorella morta, a portare movimento, vita e colore. Tra feste, aperitivi, viaggi e gran vetture il giovane trova sempre il modo di farsi finanziare dalle zie che, benché messe in guardia da Niobe e dalla disillusa Giselda, sono troppo deboli per resistere al fascino e alle richieste del giovane. Ma quando il carisma non basta più a giustificare il parassitismo, quando il suo procrastinare qualsiasi tipo di lavoro diventa troppo anche per le ingenue zie, si manifesta la vena di perfidia di Remo. Se qualcuno in platea si fosse aspettato una svolta è stato presto deluso: le zie ancora una volta cedono e accettano l’invito del giovane a una serata mondana, probabilmente il loro primo invito, ed euforiche escono di scena (ancora applausi, magari stavolta iniziati da chi come loro non ha mai ricevuto inviti alla vita mondana). Ma ancora piove dolore sulle povere sorelle, finché un giorno – in mezzo all’inevitabile collasso, fra debiti e ipoteche – un nipote quasi nudo, sensuale, in bianco e nero le rassicura che una vita colorata è possibile. Ha uno sguardo che ha il potere di far sentire vivi anche i morti. E le morte.
Probabilmente la struttura dell’opera di Ugo Chiti che riadatta alla prosa il romanzo di Aldo Palazzeschi “Sorelle Materassi” con la regia di Geppy Gleijeses – al Teatro Quirino fino al 9 dicembre – non regge la portata di grandi pulsioni e conflitti che di solito a teatro servono per un’azione catartica sullo spettatore. Ma evidentemente lo spettatore non ha cercato questo. Ha trovato rassicurazione, consolazione nella qualità dell’affetto che viene trattato. È un affetto che diventa una “merce di scambio”: ti voglio bene se mi fai sentire viva, se per qualcuno esisto, se grazie a te la mia vita non è stata invisibile e inutile. E ti nutro, ti finanzio nella misura in cui provo del bene per te, così te lo comunico. Così l’amore che non ho mai offerto nella mia esistenza smette di divorarmi le interiora come un demone. Fino alla tomba è importante avere un’immagine su cui riversare i sentimenti. Meglio se è finta, così non mi mette in difficoltà, la sensualità non mi conduce al “peccato”, e posso riporla nel cassetto una volta soddisfatto il desiderio quotidiano. Meglio se è di carta. Meglio se nel frattempo si ride un po’. Quindi meglio se questo spettacolo fa uscire tutti felici e riscaldati dal teatro.
I.R.