“Mi piace che un’opera musicale abbia dietro un pensiero” – Intervista a Michele Perruggini
Il batterista jazz Michele Perruggini ha recentemente pubblicato per Abeat Records il nuovo disco “Disillusion”. Ne parliamo con lui in quest’intervista in esclusiva per le nostre pagine. Buona lettura!
Ciao Michele, benvenuto. Iniziamo col chiederti come stai dopo aver pubblicato il tuo nuovo disco “Disillusion”.
Sono molto felice, ovviamente. È sempre un momento importante quando il frutto di tanto lavoro ed energie viene pubblicato. Se solo i non addetti ai lavori potessero immaginare quale sforzo emotivo, lavorativo, organizzativo, economico… c’è dietro la realizzazione di un prodotto del genere, correrebbero ad acquistarlo, quantomeno per incentivare la nostra professione, così difficile e così poco considerata oggi nel nostro Paese. Se poi pensiamo all’importanza dell’Italia relativamente alla storia della musica, è praticamente un controsenso.
Disillusion, un titolo evocativo. Come questa parola è legata alla musica che hai composto per questo lavoro?
Mi piace che un opera musicale non sia solo una sequenza di brani, ma che abbia dietro un’idea, un pensiero… In ogni mia pubblicazione ho inserito il concept che spiega l’umore che ha ispirato il lavoro (vedi a fine intervista il concept di Disillusion). In questo caso, la disillusione legata alla crescita, alla consapevolezza e allo svanire delle certezze dell’infanzia, si collega alle note che esprimono tale sentire attraverso varie sfumature: dolore, rabbia, accettazione, resilienza, tenacia, amore, curiosità di scoprire cosa nasconde il velo frapposto tra noi e la verità… Mi piace pensare che la musica che scrivo sia permeata di tutto questo, e che la verità emozionale arrivi all’ascoltatore, così come arriva a me mentre scrivo di pancia. Tante volte mi sono ritrovato a piangere o a rabbrividire mentre componevo travolto dalle emozioni. Infatti, dico sempre che la mia musica potrà piacere o meno, cosa che capisco e rispetto, ma nessuno potrà mai dirmi che non è vera, perché rivela esattamente il mio sentire più profondo.
Ti sei occupato della composizione, della produzione e anche dell’arrangiamento di ogni traccia. Come è stato questo processo, immaginiamo lungo ed estremamente preciso?
Come dicevo prima c’è tanto lavoro dietro. Ci sono, ad esempio, brani che ho iniziato a scrivere anni fa. Poi li riascolto mille volte; sento che magari qualcosa non è come dovrebbe essere, cambio, cerco, provo suoni, soluzioni… fino a quando l’emozione prende vita nel modo giusto. Riesco a farlo grazie al mio fedele compagno Logic (il programma che uso). L’idea iniziale comunque parte sempre da qualcosa che mi colpisce mentre “gioco” con il pianoforte. Dico “gioco” perché non sono un pianista, purtroppo non l’ho mai studiato per tanti motivi… ma adoro questo strumento e mi lascio coinvolgere dalle emozioni che mi trasmette quando esploro la tastiera senza regole, schemi o preconcetti. Poi porto l’idea sul computer, la completo e aggiungo il tema, la linea di basso, abbozzo gli archi, le percussioni, un’idea ritmica; metto insieme la struttura e decido gli spazi improvvisativi… Fino a quando il brano prende vita e posso finalmente stampare le partiture per sottoporle ai musicisti che registreranno in studio e al caro amico Leo Gadaleta che si occupa dell’arrangiamento degli archi.
Come hai scelto i musicisti presenti nel disco?
Di solito vado in studio con musicisti che, oltre ad essere bravissimi, sono anche amici fraterni: Mirko Signorile (pianoforte), Giorgio Vendola (contrabbasso). Ritengo che il trio sia il cardine fondamentale dei miei progetti, in particolare il pianoforte. In questo caso ho voluto mettermi alla prova e cercare nuovi stimoli, affrontando la sfida di coinvolgere musicisti che stimavo già prima, ma che non avevo avuto il piacere di incrociare. Grazie all’aiuto di Carlo Cantini ho potuto contattarli uno ad uno e mettere insieme una “squadra” fantastica. Splendide persone e musicisti straordinari, che hanno impreziosito, direi inevitabilmente e naturalmente, il lavoro. Si è creato un bellissimo legame e un rapporto di empatia e stima reciproca. Per rimanere in argomento trio, con Roberto Olzer (pianoforte) e Yuri Goloubev (contrabbasso) c’è stata un’intesa immediata, come se suonassimo insieme da tanto. E poi la magia c’è stata anche con tutti gli altri.
Facciamo un salto nel passato. Quando hai scoperto il jazz e come te ne sei innamorato?
L’ho scoperto già nei primi anni in cui studiavo la batteria. Suonai uno standard jazz al mio primo saggio nel lontano 1986. Poi, ho suonato di tutto perché amo la musica in generale. Sono passato dal progressive rock, alla musica etnica, d’autore, folk, funk, fusion, jazz… Coltivando sempre progetti inediti. Mi sono innamorato scoprendo Keith Jarrett, Chick Corea, Miles Davis, i Weather Report, Herbie Hancock, Chet Baker, Dave Brubeck, Bill Evans, Pat Metheny… Quando a casa di un amico ascoltai per la prima volta “Take Five”, ancora non suonavo, rimasi folgorato dal sound magico, dal groove ipnotico, dall’assolo di batteria così musicale.
Chi sono stati i batteristi che ti hanno maggiormente influenzato?
Tantissimi. Per citarne alcuni, sicuramente ho amato tanto il drumming di Agostino Marangolo, con il quale poi ho avuto la fortuna di stringere una grande amicizia. Steve Gadd, Peter Erskine, Dave Weckl, Vinnie Colaiuta, Steward Copeland, Bill Bruford, Jack DeJohnette, Bill Stewart…
Nel tuo futuro, invece, cosa ci sarà?
Sto lavorando a due progetti separati. Un album che vorrei avesse un suono molto diverso dai precedenti. E poi ad un grande sogno: realizzare un disco con un’intera orchestra di archi. Anche la musica classica ha avuto un impatto importante su di me. Infatti, è uno dei quattro ingredienti fondamentali della mia musica, insieme al Mediterraneo, l’improvvisazione jazz e la ricerca di melodie che ti entrino nel cuore, tipiche della nostra cultura.
Disillusion
Ogni nuova vita germoglia prorompente. Splende di luce ed energia primordiale, predisposta a gioia, curiosità, entusiasmo, amore… Con meravigliosa e disarmante naturalezza, ci mostra il volto del divino in terra. Ma sin da bambini, per proteggerci, ci viene raccontato un mondo che non c’è. E nel frattempo, la società ci nutre di ulteriori menzogne, cinismo, pensieri socialmente corretti ma eticamente e biologicamente corrotti. E così, la verità del comportamento emozionale lascia spazio al comportamento socialmente accettabile, che ci fa sentire più sicuri e meno “sbagliati”. Vengono disattese aspettative e speranze, e siamo spinti ad un’esistenza frenetica, contro natura, caratterizzata da narcisismo, competizione e disuguaglianza. Cadono una ad una le certezze dell’infanzia, mentre la magia e l’assonanza vibrazionale lasciano sempre più spazio alla cruda realtà, così diversa da ciò che ci avevano raccontato…
Il dolore è profondo, indescrivibile. Guerrieri senza scelta, in silenzio, pariamo colpi proteggendo quella luce che, inevitabilmente, si affievolisce. A volte resiste, in misura individualmente diversa. Altre volte la si può persino perdere del tutto, lasciando spazio all’oscurità e all’insaziabile bestia che è, comunque, parte di noi. Pur disillusi, perseveriamo strenuamente alla ricerca della luce poiché questo portiamo dentro per Natura. E ciò è inevitabilmente più tenace di qualunque oscurità.