Lei che non tocca mai terra, il non dire fino a esplodere
“Lei che non tocca mai terra” è il secondo romanzo di Andrea Donaera (NNE Editore| La Stagione, pp. 234, euro 17).
Nessuno tocca terra in queste pagine, non i protagonisti, non il lettore.
Miriam, diciottenne in coma a seguito di un incidente, è il centro da cui partono i raggi della storia: il padre Lucio, la madre Mara, Andrea, l’amica Gabry, papa Nanni.
Tutti le parlano durante le sessioni di Talking Cure suggerite dalla dottoressa, prima in ospedale e poi a casa. Tutti, eccetto papa Nanni, suo zio, tenuto alla larga dalla famiglia, che vede in lei il Male, che la osserva e controlla a debita distanza.
E Miriam ascolta, tutto, tutti e ricostruisce i pezzi.
E anche noi, tramite i racconti e gli sfoghi finalmente a cuore aperto di ognuno di loro, possiamo rimettere insieme i pezzi.
Quelli di Andrea, che i suoi di pezzi li ha sempre inventati fingendosi qualcuno che non è, qualcuno che crede migliore.
Quelli di Mara e Lucio, sposati, ma distanti per quel troppo dolore che non riescono a dirsi.
Quelli di Gabry, troppo persa e troppo lontana.
Quelli di papa Nanni che da sempre combatte il Male, eppure ne ha fatto.
Quelli di un’altra Miram, la zia scomparsa e troppo taciuta.
In sette giorni tutto e tutti vengono a galla, fino all’esplosione. Di tutto, di tutti. Inevitabile quando si sta zitti “dentro. Che tutto, dentro, sta fermo, ‘na specie di rumore bianco lontanissimo.”
Pagine in cui sembra che “Niente al mondo è fatto per rimanere”. Un concetto fin troppo chiaro, ad Andrea e Miriam in primis, malati della stessa solitudine e che lottano invece per restare e crearsi quel paradiso fatto di un poco che racchiude la pace: un caffè da preparare e bere insieme, gli abbracci la domenica mattina, un bacio sulla nuca, una treccia ai capelli, un film sul divano coi genitori accanto, ma accanto davvero.
E quelli intorno a loro annaspano nel dolore per cercare un posto simile.
L’ossessione di volersi salvare. Si aggrappano l’uno all’altro Miriam e Andrea, e a loro tutti gli altri, che di salvezza hanno bisogno, di un “amore che sia produttivo e non riproduttivo”.
“La sensazione tremenda di aver capito. Che può capitare a ogni vera felicità, alla fine, di rimanere incastrata in una foto sbiadita – senza potersi muovere, senza potersi ripetere. Senza poter ritornare.”
Donaera ci racconta di personaggi che sembrano foto sbiadite e incastrate nella loro impossibilità/difficoltà di comunicare. Solo davanti a Miriam cadono paure, blocchi, colpe e auto-colpe, desideri repressi. Ma quasi mai ci si interfaccia col giusto interlocutore per sciogliere i propri nodi. E quando lo si fa, tutto crolla perché quasi si è persa l’abitudine a parlare, a dire. Ed eccoli allora i cumuli di rabbia e solitudine.
Sono dolori profondi quelli in mezzo cui ci trascina Donaera, ben definiti come lo sono i personaggi, distinti l’uno dall’altro anche dal loro modo di parlare, dall’uso di volta in volta dell’italiano o del dialetto. Un ulteriore paletto che mettono tra loro, perché ognuno si sente diverso, non capito. E alla fine i non detti emergono tutti insieme, e si può solo esplodere. Resettare, e ripartire, forse.
Un libro delicato e ambivalente. Ci si può far trascinare dal suo buio oppure farsi portare verso l’alto (e verso l’altro) e risplendere fortissimo.
Laura Franchi