ERBA BUONA – Il ricettario di Fabio Fiori
“Dipende da noi rompere l’incanto che tiene prigioniere le cose, portarle sino a noi e impedire che cadano per sempre nel nulla” Marcel Proust
Questo piccolo libro ERBA BUONA – Ricettario di un girovago (Stampa Alternativa, pag. 136, euro 13) di Fabio Fiori, all’apparenza lieve e di agevole lettura, nasconde un intento recondito oltre quello palese di assegnare nomi a erbe ed erbacce, di raccontare con precisione viaggi tra paesaggi urbani e rurali, classificando vegetali in precise nomenclature botaniche.
Fiori dichiara, difatti, di voler tracciare una mappa, insieme ordinata e precisa, di “erbe da recitare e da mangiare”, erbe dalle radici profonde, erbe che manifestano una vitale cittadinanza, che le tiene ancorate in maniera anomala e obliqua alle cose di oggi. Coglie, testimoniandola gradualmente, l’identità inafferrabile che lega passato e presente, la indica al flâneur digitale di passaggio, oltre il suo sguardo opaco, oltre le idee semplificate dell’istante preconfezionato. Il viaggio dell’autore traversa non solo territori antropici ma anche l’eco dimenticata degli idiomi lessicali di un tempo, espressioni di di(a)letto popolare, vere e proprie radici significanti resistenti che emergono dal serbatoio dell’infanzia. “Nipote di mezzadri”, tralascia volutamente di specificare la propria formazione specialistica in campo scientifico e volge la scrittura al recupero del tempo perduto, nell’avventura funambolica in cerca di un equilibrio tra parole, erbe e luoghi poco conosciuti.
Il tono del racconto è caratterizzato da un girovagare silenzioso, attento, a piedi, in bici, in bilico tra secolo passato e post-urbanità, tra gli interstizi dei paesaggi naturali, tra insospettabili fioriture resistenti a muri antichi e oltre le recinzioni del degrado dell’edilizia spesso selvaggia che caratterizza le nostre città. Siamo nel territorio inconscio del viandante che non si lascia colonizzare da semplificazioni interpretative, né intende indebolire la complessità che secoli di lavoro della e sulla terra hanno intrecciato: una sismografia delle emozioni attraverso i sensi e la mente. Il recupero memoriale, la trama lineare del racconto, camminano tra intrecci generazionali, si compiono sotto il segno sensoriale della metafora terrena e dei suoi prodotti culturali. Profonde le sue radici, simili alle mani della nonna, che appare sin dalle prime righe e poi in maniera ricorsiva nella trama della narrazione. Da bambina questa donna, condannata a una vita di lavoro della terra, non conoscendo tempo libero se non nel breve tratto che la porterà l’indomani a ripetere con gli stessi gesti la sua “condanna”, agl’erbi lo saluta da lontano augurandogli: “Stà ligri!”, stai allegro! Erbe buone, quindi, e “io da anni con passione erboro”.
L’intento di uomo di oggi è quello di rompere la coazione a ripetere, negata ai propri predecessori, la scelta di vagare col corpo-anima a decifrare la realtà desueta del duello tra urbanità e degrado, attraverso il potere rigenerativo delle piante selvagge, che crescono testardamente tra le rovine del tempo perduto. Siamo in un campo seminato di metafore, fuori da apparenze e semplificazioni, tra aree coltivate e geometrie dell’interpretazione, nell’agire volontario dell’erranza fuori dal tempo obbligato del lavoro, che vuole finalmente riappropriarsi di strumenti complessi nel dominio pullulante ed estatico della propria coscienza.
Lucrezia Zito