Torino, il secondo e il terzo capitolo dei Lai testoriani: Anna Della Rosa e l’eredità di Sandro Lombardi

Quando si tratta di Giovanni Testori (1923-1993), l’elemento che dal suo scrivere più soavemente zampilla è senz’altro la fisicità delle parole. Frasi e fraseggio acquisiscono un corpo e pertanto il personaggio non parla più: si esprime attraverso i volumi dello spaziotempo nei quali bisogna attardarsi affinché il testo diventi cosa viva, palpitante perché appunto c’è un cuore che scalpita in ogni sillaba, in ogni fonema. In questo modo l’attore, che ad uno sguardo miope potrebbe risultare sminuito, più semplicemente imbraccia un altro ruolo: non è più l’interprete di un segmento di trama, ma l’ambasciatore di un significato presentabile solo attraverso la magica musica del suo significante. Non fanno eccezione, quindi, i Tre Lai dello scrittore milanese che fu anche giornalista, poeta, drammaturgo e sceneggiatore, nonché pittore. Si tratta di tre monologhi di altrettante donne emblematiche per la storia occidentale: Cleopatra, Erodiade e Maria. Noi serbiamo ancora il ricordo di una spettacolare Cleopatràs al Carignano, cinque anni fa, con Valter Malosti in regia; mentre ora la trilogia si chiude con gli altri due capitoli, Erodiàs e Mater Strangosciàs. Sul palco c’è di nuovo lei, la pluripremiata e autorevolissima Anna Della Rosa, ma questa volta la messinscena è passata attraverso un singolare meccanismo teatrale di orientale memoria. L’attrice, infatti, ha ricevuto in dono l’interpretazione specifica di Sandro Lombardi, il quale nella seconda metà degli anni Novanta ha lavorato molto con questo testo, uno e trino. Non c’è quindi una regia nel senso più comune del termine, ma una staffetta tra l’anziano e la promessa, o ancora meglio: la traversata di una resa teatrale da un umano ad un altro.
In scena ci sono pochissimi elementi. Al centro di tutto, e al centro di un tappeto rotondo e grigio, c’è l’esile scranno della regina che ha un gran da dire su tutto e tutti in un brianzolo furente; a sinistra, su un piedistallo grigio, la testa di Giovanni Battista che le preferì la figlia Salomè; a destra, una seduta più umile, per la seconda monologante col suo lombardo tenero e tiepido. Una regina in Terra e la Regina del cielo. Dietro, appesa al fondale nero, una sciarpa con delle lucine. Entra l’attrice, in frac, con il sudario di Cristo, ma la prima a parlare è la regina in Terra, e discute con sé stessa, col pubblico, con un regista immaginario, e soprattutto con la testa dell’uomo che aveva tentato invano di sedurre, per poi soffermarsi più volte su quel dio di cui il Battista si riempiva la bocca: uno strano dio, figlio d’una vergine, e condottiero degli sventurati (suonava più o meno così: …un scief / un capo / de’ reietti e calpestadi / dei ciechi, dei ciavadi / e mutulati…). Poi l’attrice toglie la giacca, arrotola le manche della camicia, scioglie i capelli. È Maria. I suoi discorsi toccheranno altre corde, fra domande senza risposte e l’acquiescenza massima che ne contraddistingue il mito.
Noi abbiamo visto lo spettacolo venerdì scorso, per l’ultima di tre repliche: 16, 17 e 18 aprile, al Teatro Astra di Torino. La produzione è di Emilia Romagna Teatro ERT e Compagnia Lombardi-Tiezzi.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Daniela Neri