“Sono ancora qui”, nonostante

“Sono ancora qui” (La Nuova Frontiera, Collana Liberamente, pp. 288, Euro 18,00, traduzione di Marta Silvetti) è l’ultimo romanzo di Marcelo Rubens Paiva (San Paolo, 1959), scrittore, drammaturgo e sceneggiatore, figura di spicco della scena letteraria brasiliana contemporanea. Da “Sono ancora qui” è tratto l’omonimo film di Walter Salles, premio per la migliore sceneggiatura a Venezia.
“La memoria è una magia sconosciuta. Un trucco della vita. I ricordi non si accumulano gli uni sugli altri, ma gli uni accanto agli altri. Un ricordo recente non viene recuperato prima del millesimo. Si mescolano.”
Rio de Janeiro, gennaio 1971: Marcelo ha solo undici anni quando il padre, ingegnere ed ex deputato, viene sequestrato dagli agenti della dittatura militare. Da quel momento di lui non si avranno più notizie. Con cinque figli da crescere e nonostante il dolore, Eunice, la madre di Marcelo, mette da parte solitudine e malessere, si rimbocca le mani e ricostruisce la propria vita, oltre a mandare avanti quella di chi le è accanto. Riprende gli studi con una determinazione straordinaria e diventa avvocato, dedicandosi alla difesa dei diritti civili, alle lotte per la democratizzazione del Paese e alla ricerca della verità. Anni dopo, quando Eunice si ammala di Alzheimer, Marcelo inizia un viaggio nei ricordi, portandoci dal Brasile degli anni ‘70/’80 fino a oggi, facendoci passare per la tensione, la violenza, l’energia, gli ideali e gli sforzi di un Paese in trasformazione.
Parte dalla fine Paiva, dalla madre Eunice che in tribunale si fa interdire finché ancora lucida, perché sa che l’Alzheimer che l’ha colpita non ha pietà. E si va a ritroso nel tempo, per raccontare la storia della sua famiglia: la sparizione del padre e la lotta continua, estenuante della madre, per la verità, per mantenersi, per reggere al peso, per tutto. Ci sono anche Marcelo, con le bravate che lascia intendere, con le sue indecisioni e le sue quattro sorelle in queste pagine che restano, però, soprattutto un inno alla madre. Quella che non l’ha mai abbracciato, ma l’ha sempre appoggiato e che, anche su una carrozzella, ha continuato ad aprirgli le dita della mano perché non si atrofizzassero. Una madre che non è tenera, ma pratica, all’occorrenza granitica. In questo romanzo c’è molto, forse tutto.
“Non so come si possa imparare, sopravvivere e condividere esperienze, avere figli, trovare la pace spirituale, essere completi e solidali senza aver vissuto in campagna con tanti cugini, abbracciati dalla propria famiglia, coccolati e al sicuro, senza aver mai attraversato in fiume su una canoa fatta con un tronco, senza aver contato le stelle cadenti, senza essersi mai rotolati nel fango, mangiato frutta direttamente dall’albero, pescato…”
È un romanzo che ci indica la via, su come la vita potrebbe (dovrebbe?) essere sin da quando si è bambini. Certo, crescere in una famiglia benestante, moderna, aperta, che ridisegna dei diritti uguali per tutti, che si mette in gioco per gli ideali e per la libertà, non è per tutti. Paiva ha avuto questa opportunità e l’ha saputa sfruttare al meglio, e questo romanzo ne è chiara testimonianza.
Un libro politico, sociale, un monito per quel che rischia di accadere ancora e ancora. Un dito puntato su pezzi di storia in cui si sono raccontate così tante bugie da farle scambiare per la verità. Un invito a stare dalla parte giusta, perché c’è una parte giusta in cui stare. E tutto in mezzo, tutt’intorno scorre la vita, che riesce sempre a trovare il modo di essere piena, devastante, con una musica di sottofondo che sembra quasi uscire dalle pagine.
Un racconto a voce alta, come una chiacchiera tra amici, in cui si va avanti e indietro, perché è così che succede quando si rimettono insieme i pezzi, un inno al ricordo, a ciò che rischia di svanire dalle nostre menti e nell’oblio collettivo che troppo spesso lascia spazio a vecchi mostri, tutti affetti da un Alzheimer generale, non solo in Brasile, vivendo nella banalizzazione del male senza interrogarsi sulle sue conseguenze morali. Un libro-faro che illumina la notte per aiutare i pescatori a tornare a casa con le reti piene di pesci. E dunque, un elogio alla memoria, nel ricordo del padre, vittima di una dittatura che condanna all’eterna tortura psicologica anche chi resta in vita, ma più di tutto un inno alla madre, il ritratto dell’emancipazione. Eunice è il fulcro, di tutto.
Sono ancora qui, aspetto una fine giusta.
Sono ancora qui, esisto nonostante tutto.
Sono ancora qui.
Laura Franchi