“One Blood”, il nuovo album dei Tarantola – la recensione

Tarantola è una band reggae nata nel 2018, fondata da Mauro Lacandia. Il viaggio della band ha inizio nella vibrante Londra, metropoli dove i Tarantola incontrano una variegata comunità di musicisti, artisti, produttori provenienti da ogni parte del mondo. Ed è in questo contesto che la passione dei Tarantola per la narrazione, i valori, le radici e i diversi stili musicali si accende. Da qualche giorno è disponibile su store e piattaforme di streaming il loro nuovo album One Blood.
Un ponte sonoro tra Sud Italia, Giamaica e Londra: la musica come atto politico e abbraccio umano.
Con One Blood, i Tarantola firmano un album che non è solo un’opera musicale, ma una dichiarazione culturale. Pubblicato da The Sound of Everything e distribuito da The Orchard, questo progetto riesce nel difficile compito di essere al tempo stesso profondamente radicato e globalmente aperto, mettendo in dialogo dialetto salentino, inglese e sonorità multiculturali.
Fin dal primo ascolto è chiaro che One Blood non si accontenta di essere un buon disco reggae: è un’opera ambiziosa che usa la musica come strumento di connessione, resistenza e guarigione. La title track è una delle punte più alte: un inno alla fratellanza umana che non scade mai nella retorica, ma parla con sincerità e lucidità di razzismo, empatia e futuro.
C’è spazio anche per l’orgoglio identitario in “Original Terron”, per la solarità contagiosa di “Capufriska”, e per la spiritualità emotiva di “Soul Vibration”. Non mancano brani più intimi e dolorosi, come “Anche io sono migrante” e “Where I Belong”, che mostrano il lato più vulnerabile del viaggio di chi vive lontano dalla propria terra.
Le collaborazioni, da Daddy Freddy ad Awa Fall, da Sabaman a Papa Leu, non sono meri orpelli, ma parti vive dell’album: ogni featuring ha un senso e amplifica il messaggio. La presenza di Manuel Scaramuzzino nella versione dub finale è il suggello tecnico di un lavoro che ha ambizione e sostanza.
One Blood è, in definitiva, un disco necessario: perché unisce invece di dividere, perché ricorda che le nostre radici possono diventare ali, e perché dimostra che anche da un piccolo angolo del Mediterraneo può nascere un suono capace di parlare al mondo.
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