Mascolinità in loop: “L’eterno marito” nella riscrittura di Autelli e Carnevali

Se leggi a lungo Dostoevskij, anche Dostoevskij scruterà dentro di te. Il confine tra chi guarda e chi è guardato si dissolve: è questa la sensazione che accompagna L’eterno marito, riscrittura di Davide Carnevali affidata alla regia di Claudio Autelli. Il romanzo breve si trasforma in un labirinto di specchi in cui il tema del doppio si moltiplica e si rifrange in molteplici direzioni, ruotando vorticosamente attorno a una coppia di uomini: Pavel Pavlovic Trusozkij (Ciro Masella), vedovo e padre putativo di Liza, e Aleksej Vel’caninov (Francesco Villano), che è stato l’amante della defunta moglie di Pavel, più o meno a ridosso del concepimento di Lisa. Il primo vive solo in funzione delle relazioni sociali e dell’unione matrimoniale, il secondo è un seduttore con l’aria da intellettuale, libero eppure incapace di trovare la propria stabilità.
Schiacciata ai margini della narrazione e della scena, la fragile figlia diventerà il simbolo di un’innocenza che i due adulti non sanno né accudire né proteggere, incapaci come sono di aprirsi a un futuro diverso. Anche l’irruzione di Lubov, voce scalpitante delle nuove generazioni in sala, rimane inascoltata e inefficace.
Opposti e complementari, Pavel e Aleksej inseguono la propria vita senza mai raggiungere la meta, ossessionati dal desiderio di essere visti e desiderati. Non a caso l’arma con cui spesso duellano è una telecamera in presa diretta: la regia indugia su questa proliferazione di sguardi per sottolineare l’ambiguità dei sentimenti e l’impossibilità di distinguere in modo netto tra colpa e innocenza, tra vittima e carnefice. Il doppio non si esaurisce nella dialettica dei personaggi dostoevskijani, ma si estende con frenesia crescente al rapporto tra attore e ruolo, tra scena e platea, teatro e cinema (inserti filmici di Alberto Sansone), in un continuo slittamento che confonde i piani e che mette in scena il gesto stesso del rappresentare. Le scenografie di Maddalena Oriani traducono visivamente questo incessante movimento tra dentro e fuori, tra sfera privata e dimensione pubblica, sostenute dal disegno luci (Omar Scala) e dal sound design (Gianluca Agostini). In un simile intrico, la vera forza dello spettacolo risiede soprattutto nella brillante intesa tra Masella e Villano, che si fronteggiano e si specchiano l’uno nell’altro con una naturalezza che rende credibile l’oscillazione di tono dal grottesco alla tragedia.
In filigrana, questa coproduzione LAB121/TrentoSpettacoli mette in scena anche una riflessione sulla mascolinità come anello chiuso in se stesso. I due uomini, infatti, incarnano modelli che si ripetono senza apparente via di uscita, entrambi irrisolti e incapaci di crescere. Nel suo rimanere intrappolato in un circolo vizioso, lo spettacolo ci ricorda quanto sia urgente immaginare alternative e spezzare il meccanismo della ripetizione.
L’eterno marito vorrebbe lasciare poche risposte e molte più domande. L’intento è chiaro, le potenzialità ci sono, ma la forma scelta non sempre è efficace. L’insistenza sullo sfondamento della quarta parete, ad esempio, finisce per apparire un espediente un po’ superfluo: nella quotidianità del pubblico di oggi, autunno 2025, quella barriera è già da tempo caduta. Viviamo immersi in un flusso continuo di call to action, di inviti a mostrarsi e a guardare, in un’esposizione costante. Numerose esperienze teatrali contemporanee anche molto recenti dimostrano che, se usato in modo attento, rompere il confine con la platea può essere ancora un gesto significativo e aprire varchi di senso inattesi; qui la macchina scenica sembra compiacersi della propria complessità anziché cercare di trasformarla in un’esperienza capace di interrogare davvero il pubblico.
Visto al Teatro Comunale di Pergine, mercoledì 29 ottobre 2025.
Pier Paolo Chini








