Mandafounis, Ninarello, Lehlouh: prime impressioni su TorinoDanza

Quando si tratta di arte e delle sue figlie, non c’è niente di più bello che respirare un po’ di internazionalità. In quest’ottica può dare grandi soddisfazioni il Festival TorinoDanza, diretto da Anna Cremonini con un cartellone concentrato fra il 5 settembre e il 5 ottobre, a cavallo fra MITO e il Festival delle Colline Torinesi. Oltre al Teatro Carignano, al Grattacielo Sanpaolo e alla Casa del Teatro Ragazzi, la venue principale è Moncalieri con le Fonderie Limone, dove abbiamo visto gli spettacoli di cui disquisiamo qui. Ma dicevamo dell’internazionalità: TorinoDanza è una di quelle occasioni in cui la città è costretta, per il suo bene, a guardare oltre il nostro modo di fare e intendere le cose, non solo perché nelle compagnie ci sono professionisti che arrivano da ovunque, ma principalmente per la qualità e la materia di cui constano le produzioni, impegnate in una ricerca in cui il ballo (movimenti, corpi, gesti) è la base di una quête più ampia e profonda che coinvolge quello che noi chiamiamo teatro (voci, parola, trame).
Per esempio sabato 13 ci siamo sdilinquiti con À la carte, happening della Dresden Frankfurt Company, guidata dal coreografo Ioannis Mandafounis; sulla magia dell’incontrarsi veramente, come a voler abbattere quella dannata quarta parete che impedisce al pubblico pagante di capire che anche loro sono attori; che tutti recitiamo, da sempre. Per spiegare questa cosa, che può sembrare piccola ma quando s’inizia a considerarla ci si accorge della sua potenziale sconfinatezza, i danzatori praticano sugli spettatori una vera e propria terapia d’urto: guadagnano il palco e durante un moto rotatorio e centripeto, per dieci minuti buoni urlano I love you!, con varie inflessioni ma sempre molto accorato, puntando il dito sui singoli e sorridendo e ammiccando. Poi Thomas Bradley prende un microfono e domanda a tutti di fare casino, di essere felici, di essere lì in quel momento con lui. Quasi nulla è predeterminato. Bradley scherza, gioca a fare il frontman; domanda a un anziano signore in prima fila se in un ipotetico primo appuntamento fra loro due, il signore lo porterebbe fuori a cena o cucinerebbe per lui. Parlano due lingue diverse, così gli altri aiutano a tradurre. S’instaura, anche se per un tempo infinitesimale, una comunità; un gruppo di pari, in un granello di spaziotempo, accomunati da un interesse: danza, teatro, arte, libertà? Definire non serve. L’obiettivo non è far vedere qualcosa di bello, ma far esperire il senso di associazione. Si canta tutti insieme, a cappella, My heart will go on. Poi ogni ballerino si avvicina a una persona nel pubblico e ci parla per qualche minuto, Bradley raccoglie le informazioni dei singoli e le unisce in una specie di poesia situazionista che subito decade in un applauso ed ecco un altro ballerino, Emanuele Piras, il quale spiega in italiano come si prepara la lasagna e ogni passaggio è accompagnato da uno slancio, un passo, un arco del corpo e della voce nel refrain ragù besciamella mozzarella, che è demenziale ma anche giusto e autentico; Thomas peraltro lo ripete col suo accento e tutti giù a ridere. E ancora: un violinista, Noé Inui; scene recitate e storielle raccontate, scintille pirotecniche, e la miniatura di un rave sul finale (Piras, quello delle lasagne, in consolle) quando gli artisti invitano gli astanti a fotografarli e riprenderli mentre ballano, in contrapposizione alla regola generale di tutti i teatri. À la carte è un evento speciale e magico, un momento quasi di ribellione; è la celebrazione del sovvertimento che non permane solo perché non siamo abbastanza decisi. E se un giorno rovesciassimo tutto per davvero? Gli interpreti, oltre a Bradley: Todd Baker, Emanuele Co’, Louella May Hogan, Nastia Ivanova, Marina Kladi, Yan Leiva, Daniel Myers, Solène Schnüriger, Ichiro Sugae, Ido Toledano, Sam Young-Wright. La scena e le luci sono di Mandafounis; la drammaturgia di Anna Lemonaki e Philipp Scholtysik; i costumi sono di Bradley.
Sabato 20, invece, abbiamo assistito a due spettacoli: Rise del piemontese Daniele Ninarello e Témoin del collettivo bretone Fair-E. Nel primo un piccolo gruppo di performers occupa lo spazio senza una prospettiva definibile, consentendo all’incontro dei corpi di fungere da protagonista, in un meraviglioso processo corale di attraversamento e accettazione delle diversità. Indossano tutti pantaloni aderenti tipo leggings e dei top che lasciano intravedere la pelle. Al centro di tutto, forza motrice e creatrice, il paesaggio sonoro di Dan Kinzelman, che con sassofono e consolle elettronica ricrea un’atmosfera di scambi intimi e sussurri tonanti. In una riscoperta della solitudine come propulsore della ricerca di una comunità, la musica agisce da base per i contenuti. È come quando in discoteca ci possono essere anche migliaia di persone, ma tutte si muovono grazie e per mezzo del dj, e allora per forza che non si può distinguere una coreografia, ma figure che ballano per loro stesse; s’incrociano e si diluiscono pensando ai propri dilemmi nell’aria brillante e cangiante. Ho voglia di sfiorarlo, io, questo ragazzo? Ho voglia di flirtare, io, con quella fanciulla? Gli atomi non si toccano mai, ma la realtà è un’altra cosa, con la sua concretezza e la fisicità. Kinzelman, come un pifferaio incantatore che libera invece di catturare, concede ai movimenti di germogliare dai suoni. Verso la fine il caos diviene grandioso: invece dei soli cinque ballerini il palco viene occupato, strizzato e rimodulato da quindici individui che per un attimo si uniscono, poi si slacciano, escono, rientrano. Il disordine, idilliaco, si fa massa e conquista i volumi proiettandoli sul pubblico per il quale si sprigiona una serie di interrogativi: quand’è stata l’ultima volta che ho ballato veramente? E quando l’ho fatto, ballavo per me stesso o con gli altri? E ogni volta che danzo, se danzo, quanto sarebbe meraviglioso poter condividere l’intensità del mio agire con altri umani interessati alle mie movenze e a replicarle, per capirle e farle proprie? Coi primi danzatori – Marina Bertoni, Vera Borghini, Erica Bravini, Nicola Simone Cisternino e Pietro C. Milani – hanno collaborato i partecipanti di un workshop intitolato Parade. Vogliamo citare anche Marco Santambrogio per l’impeccabile lavoro sulle luci.
Infine, Témoin, il testimone. La coreografia è di Saïdo Lehlouh; gli interpreti sono Ndoho Ange, Mehdi Baki, Audric Chauvin, Marina de Remedios, Jerson Diasonama, Johanna Faye, Evan Greenaway, Théodora Guermonprez, Linda Hayford, Marvin Kemat aka Zulu, Karim Khouader aka Karim KH, Odile Lacides, Timotkn, Mattéo Raoelison aka Rao, Mathias Rassin aka Thias, Émilie Ouedraogo Spencer aka Wounded, Raphaël Stora, Clarisse Tognella e Lorenzo «Sweet» Vayssière. Lo spettacolo fonde la breakdance con l’hip hop, il waacking, il krump, l’electro e il top rock. Il risultato, complesso e raffinato, riguarda soprattutto la multiculturalità e la sensorialità. Un’unica luce circolare al centro proietta un cono nel buio: persone entrano ed escono, alcuni attraversano, altri camminano e corrono sul bordo e fuori di esso. Si annusano, si ballano addosso, è sempre il turno di tutti e di nessuno per agire o per stare fermi. Correre, fermarsi, correre, fermarsi. Poi tutti in fila, come una parata militare o una sfilata. Indietreggiano nel buio, qualcuno rimane. Sembra quasi di vedere e percepire la ritualità sociale e la sua parodia, la bellezza e coloro che scelgono di ignorarla. È tutto estremamente erotico e tribale, serio e serioso. Accuratezza scapigliata. Anche qui, luci e musica giocano ruoli fondamentali nella messinscena: Tom Visser e Gwendal Malard plasmano lo spazio del palco giocando soprattutto col buio, mentre Mackenzy Bergile (compositore) e Raphaël Henard (drammaturgo musicale) delineano il panorama sonoro entro il quale si compie il movimento dei corpi attingendo anche da altri, come gli X-Men di Retour aux pyramides.
Davide Maria Azzarello










