La pazzia sfida l’amore, e vince, nell’Hamlet di Jacopo Spirei diretto da Jérémie Rhorer

Lo scorso 27 maggio, al Teatro Regio di Torino, c’è stata l’ultima replica di Hamlet, drama lyrique di Ambroise Thomas in cinque atti con trama adiacente all’omonimo testo di Shakespeare. Non si tratta di un’opera frequentemente rappresentata nel nostro paese, lo stesso Regio lo ha proposto due volte nel 1881 e nel 2001, e per questa ragione si è trattato di un’occasione speciale, unica, durante la quale il pubblico ha potuto apprendere ed emozionarsi all’insegna di una trama conosciutissima (nel teatro di prosa) qui musicata e rimodulata per trasmettere con rinnovata energia i suoi tratti distintivi meno, ovviamente, quella peculiare e autorevole profondità che è insita nel testo d’origine, qui ridotto a libretto da Michel Carré e Jules Barbier, i quali erano ben consapevoli dello sforzo richiesto loro e, oggi possiamo dirlo, si dimostrarono all’altezza del ruolo. Hamlet è stato presentato all’Opéra di Parigi nel ’68: s’inserisce quindi a pieno titolo nel momento di passaggio del secondo Ottocento tra la grand-opéra e la rivoluzione wagneriana. La produzione del Regio, peraltro, ha voluto recuperare la cupa variante originale per tenore (stabilendo così una prima mondiale) invece della consueta versione baritonale, più eroica, che Thomas fu costretto a riscrivere per penuria di tenori fuoriclasse. Per quanto concerne i contenuti, la tragedia del Bardo viene riformulata in chiave romantica: in primo piano rimane l’amore, e dunque la follia, e in sottofondo ristagnano la pseudopolitica, l’omicidio, le vendette e i rimorsi cristiani. Alcuni personaggi cambiano radicalmente: la regina Gertrude, per esempio, qui è complice della congiura che ha portato alla morte del marito.
Con la regia di Jacopo Spirei il dramma trova il suo fulcro nell’eredità di violenza in cui è costretto il protagonista e nella battaglia che deve suo malgrado portare avanti e dalla quale, sebbene ne esca teoricamente vittorioso, rimarrà invischiato senza la possibilità di esperire la pace. Mentre gli affetti si disgregano e le certezze vacillano, la realtà assume un tono di grigia e compassionevole follia che piega e distorce le menti degli unici due la cui speranza sarebbe o dovrebbe essere ancora viva, benché per poco. Lui, così preso dalle questioni di ammazzamenti familiari, impazzisce e implode e dimentica ciò che di bello potrebbe esserci nella sua vita: Ofelia, che grazie a Thomas diviene protagonista quanto Amleto (sarebbe bello e giusto, infatti, titolare Hamlet et Ophelie), è vittima di un interesse perduto o forse mai veramente sbocciato cui si accosta, per quanto possa apparire stravagante, la consapevolezza di lui che proprio con lei si sarebbe potuta instaurare una felicità al di là di onori e oneri cui deve sottostare un principe. Nella ragazza, schiacciata dal tetro ingombro dell’amore negato (per ragioni che all’amore dovrebbero essere subordinate), converge tutto il disordine del mondo e delle regole che gli umani s’impongono e di cui si pentono: quando nel quarto atto perde la ragione ricorda molto Giselle e le Villi (citate testualmente), gli spiriti slavi delle donne lasciate all’altare. Il suo lirico suicidio, o ritorno all’acqua, si espande visivamente e fisicamente come una stella esplosa nel silenzio della Storia: è la scena centrale, lo snodo, l’icona da rammentare, la figura che insegna, un valore da trasmettere. Certo, c’è dell’altro: fra i momenti meglio risolti troviamo senza dubbio quello del metateatro, quando i commedianti inscenano l’omicidio del re per mano di Claudio e Gertrude con tre enormi pupazzi in cartapesta su carrelli e ruote, in un macabro carnevale di fantasmi cui lo spettatore si sentirà sempre più prossimo. È un’opera lunga, fluviale, ma l’attenzione non cala mai: orchestra, canto, gesti, movimenti, recitazione, coro, scene, costumi, luci; tutto funziona come dovrebbe: noi siamo sinceramente felici di aver assistito a questa magia di musica e visioni che accompagnano, cullano e poi stupiscono anche l’astante più puntiglioso.
È infine necessario soffermarsi sulle singole abilità grazie alle quali è nato questo prodotto di altissimo livello, fra i più riusciti di questa stagione. Innanzitutto, Gary McCann ci ha donato una raffinata scenografia di strati verticali che garantiscono una seria profondità allo spazio, e in cui di Elsinore non rimane che una cinerea traccia, una luce adamantina, e un salone solo vagamente opulento, con grandi finestre (tutte chiuse) e una serie di tozze colonne sormontate di vasi con fiori pastello; in netta contrapposizione al rosso del letto in cui giacciono i traditori: è da lì che il sangue ha iniziato a sgorgare, dalla cupidigia di Claudio, che per questo morrà, e di Gertrude. L’estetica del quarto atto, col suicidio di Ofelia, sorprende per la semplicità e l’efficacia: una serie di impalcature ammantate di veli fluttuanti non tanto come l’acqua, ma come le correnti sotto di essa. I costumi, invece, sono di Giada Masi, classicheggiante per l’abbigliamento del coro e di molti personaggi, ma con due grandi eccezioni: innanzitutto la regina pacchiana con le sue piume e le vesti di un viola quaresimale abbinato (si fa per dire) all’arancione squillante della capigliatura a metà fra Maria Antonietta e Marge Simpson. È una donna frivola, in fin dei conti, ed è giusto così. E poi Ofelia: candidissima, e alla fine persino eterea. Ron Howell ha curato invece la coreografia, molto opportuna, e Fiammetta Baldiserri i sottili giochi di luci fredde per il mondo dei vivi, che devono ancora essere giudicati, e calde per i morti, ormai avvolti dal conforto dell’oltre-vita.
Impeccabile l’assetto musicale: Jérémie Rhorer dirige cogliendo ogni sfaccettatura del dramma, e l’Orchestra di casa non lascia spazio alle critiche. Ulisse Trabacchin guida come di consueto il Coro, compatto e versatile, abilissimo. John Osborn è senz’altro un Amleto consapevole, attento nel colore della voce ma sensibile ai significati e ai significanti; e così Riccardo Zanellato nel ruolo di Claudio e Julien Henric nei panni di Laerte. E però ancora una volta sono le donne a spiccare: Clémentine Margaine, Gertrude; e Sara Blanch, Ofelia. Completano il cast Alastair Milesnel (il re defunto), Alexander Marev (Marcellus), Tomislav Lavoie (Horatio), Nicolò Donini (Polonius), Janusz Nosek (il primo becchino) e Maciej Kwaśnikowski (il secondo becchino).
Del cartellone di quest’anno manca l’ultima rappresentazione: mercoledì 11 giugno, al Piccolo Regio Puccini, verrà presentato con una conferenza-concerto l’Andrea Chénier di Umberto Giordano, in scena dal 17 al 29 giugno. Per l’estate, infine, è prevista La meglio gioventù in concerto, un ciclo di cinque appuntamenti nella Corte d’Onore di Palazzo Reale dal 2 al 24 luglio.
Davide Maria Azzarello
Fotografie di Daniele Ratti-Mattia Gaido