La Festa della Liberazione al Teatro Gobetti di Torino: l’esercizio della memoria con Antonicelli

Non è facile recensire Festa grande di aprile senza fornire uno sguardo politico, ma poi cos’è che facciamo che non coinvolga la politica? Anche i disamorati e coloro che non vanno a votare fanno politica, perché come spiegava Cesare Pavese, …dovremmo rivoltarci, tirare le bombe, rischiare la pelle. Chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista. Dal 23 aprile al 4 maggio, per un totale di undici repliche, il testo teatrale di Franco Antonicelli è stato riproposto dal Teatro Stabile di Torino nel Teatro Gobetti: per chi non lo conoscesse, si tratta di percorso recitato e riferito dalle arringhe disperate di Matteotti alla Liberazione compiuta dai partigiani e dagli alleati. Per chi non conosce l’autore, forniamo giusto un paio di dritte nella speranza d’ispirare il lettore ad approfondire. Franco Antonicelli è stato prima di tutto un grande antifascista: arrestato a più riprese, s’innamora e si sposa al confino, presiede il CLN e crede nella Repubblica alleandosi, nel dopoguerra, con La Malfa e Parri, subito lasciati per via dell’alleanza con i democristiani, che non tollerò mai.
La drammaturgia è stata affidata al giovane e promettente Diego Pleuteri, il cui stile sta pian piano emergendo e delineandosi grazie a una serie di spettacoli molto riusciti, fra cui quello in esame. Le scene interpretate sono intervallate dagli interventi di Gianni Oliva – storico, allievo di Galante Garrone – di cui rimane impresso più di tutto un passaggio verso la fine, quando spiega perché è diventato molto difficile parlare di queste cose, nelle contingenze di questo paese; e come sia divenuto impossibile raggiungere un grande pubblico e appassionarlo alla Storia e, in fin dei conti, alla propria identità. Fa male, sentire questi ragionamenti. Fa male al cuore e all’anima, ma Oliva ha ragione, semplicemente. A maggior ragione se si pensa che quest’anno c’era una ricorrenza tonda: ottant’anni esatti. Difficili da ignorare. Eppure ci siamo riusciti. In regia c’è Giulio Graglia, e in scena la competenza attoriale di Francesco Bottin, Hana Daneri, Matteo Federici, Iacopo Ferro, Celeste Gugliandolo, Diego Pleuteri e Michele Puleio. La scenografia, essenziale ma azzeccata, è di Fabio Carpene, e consiste in una pedana centrale, nera e quadrata; due file di grucce con cappotti scuri appesi (un accenno alla metafisica degli anni Quaranta) e due amboni in legno sugli spigoli del palcoscenico (essenziali, dritti; come due fasci littori). Sull’ambone di destra, i personaggi storici; su quello di sinistra, lo storico Oliva. I costumi sono di Giovanna Fiorentini, le luci di Antonio Merola, le musiche originali di Andrea Chenna, i movimenti di Antonio Bertusi. La produzione è dello Stabile in collaborazione con il Polo del Novecento, centro culturale sito nei quartieri militari juvarriani dove si concentrano diverse realtà tra cui il Museo Diffuso della Resistenza, della deportazione, della guerra, dei diritti e delle libertà; l’ANPI, il Centro Studi Piero Gobetti, l’Istituto Piemontese Antonio Gramsci, l’Istituto di Studi Storici Gaetano Salvemini, l’Unione Culturale Franco Antonicelli e molti altri partners per un totale che supera le due decine.
Lo spettacolo è un excursus della valanga che ci ha travolti e portati alla rovina. Si comincia con Matteotti e i suoi accorati discorsi in Parlamento: è al centro della pedana e gli altri attori gli girano attorno come avvoltoi, sminuendolo, mentre un altro quadrato nero bordato di neon bianco e speculare al suo altare viene calato, lento ma inesorabile, fino a sfiorargli la testa e costringerlo in una morsa che con le buone o con le cattive lo costringerà a tacere. Poi c’è Lauro De Bosis, il mitico aviatore dilettante che nel ’31 morì inabissandosi con suo Pegaso fra Roma e Marsiglia dopo aver lasciato cadere sulla capitale quattrocentomila manifesti antifascisti, di cui riportiamo qui un significativo passaggio: Roma, Anno VIII dal delitto Matteotti. Chiunque tu sia, tu certo imprechi contro il fascismo e ne senti tutta la servile vergogna. Ma anche tu ne sei responsabile con la tua inerzia. Non cercarti un’illusoria giustificazione col dirti che non c’è nulla da fare. Non è vero. Tutti gli uomini di coraggio e d’onore lavorano in silenzio per preparare un’Italia libera. E ancora: Gramsci in tribunale e l’odio per gli indifferenti. L’ignavia: il peso morto della storia da cui scaturiscono dittature e quindi guerre. La storia non è una fatalità ma il risultato del volere di certi oligarchi emersi nell’indifferenza generale. E ancora: un insegnante di matematica delle scuole medie, un piccolo borghese, spiega al figlio perché invece l’ignavia può essere una virtù. Una staffetta e una madre fascista si confrontano. Le veline del Ministero della Cultura Popolare. L’urlo: Pane! Pace! Libertà!
Davide Maria Azzarello