L’ Edipo Re di De Rosa: un faro sulla fragile condizione del figlio

Chi sono io? È da questo interrogativo che Edipo dà inizio a un’indagine sulle sue origini, mosso da una disperata ricerca della verità che a volte può portare con sé la distruzione dell’esperienza del bene e che mette in risalto la fragile condizione del figlio. Attraverso una ben studiata macchina scenica (Daniele Spanò) e drammaturgica, il regista Andrea De Rosa ha dato nuovo respiro al testo di Sofocle, accolto da una copiosa presenza di pubblico al Teatro Vascello dal 4 al 9 marzo.
Secondo il racconto, una grave pestilenza, causata dall’ira dell’obliquo Apollo, si è abbattuta sul popolo di Tebe. L’infezione potrà essere debellata solo quando l’assassino del re Laio verrà scoperto e punito. Per far letteralmente luce su questa vicenda ritroviamo una fila di fari (Pasquale Mari) posti in semicerchio come tante piccole vedette, insieme a una schiera di pannelli in plexiglas ricoperti da macchie, quasi a voler ostacolare la vista per cercarne una spietatamente senza veli. Se, come diceva il filosofo Lacan, “la vita dell’uomo in quanto figlio è messa a bagno nel linguaggio“, in questa occasione, grazie anche al sapiente lavoro di traduzione di Fabrizio Sinisi, emerge un scavo significativo sulla dimensione vocale nei monologhi e nei dialoghi dei vari attori. Ne sono un esempio l’iniziale lamento di dolore, i moniti, le espressioni di terrore affidati al coro (Francesca Della Monica, Francesca Cutolo) che fanno da eco lancinante all’ineluttabilità del destino. Il canale principe della voce diventa culla di orizzonti semantici, viatico per l’individuazione della nostra complessità e del nostro mistero.
Edipo, “timoniere di una nave alla deriva” si muove tra predestinazione e libertà, tra volontà divina e responsabilità individuale. Si è macchiato dei peggiori crimini, parricidio e incesto, e allo stesso tempo non sa che l’uomo ucciso al crocevia è suo padre, il re Laio. Non sa che la donna che ha posseduto e dalla quale ha avuto due figli è sua madre Giocasta (Frédérique Lolieé). I suoi atti sfuggono alla sua coscienza.
Una drammatica ricostruzione all’indietro in cui dubbi, passione per la chiarezza e sentimenti contrastanti fanno della lingua ora un rovello, ora un incedere incandescente di toni nella convincente prestazione di Marco Foschi nel ruolo di protagonista. Ma l’errore che l’eroe tragico commette è di escludersi a priori come la potenziale causa che va a scovare negli altri. A ricordarlo sarà Creonte (Fabio Pasquini), quando Edipo lo accuserà di tramare alle sue spalle. Altre figure determinanti sono quelle del messaggero, di Apollo e di Tiresia, raccolte nella voce ambivalente ed enigmatica di Roberto Latini, che segna lo straripante incontro tra umano e sacro e conferisce a questa tragedia del linguaggio tutta la potenza del rito.
Alla fine, quando ormai Edipo si sarà accecato per sete di troppa verità, una luce fioca, quella di un neon reggerà gli ultimi versi: “Non dite mai di un uomo che è felice finché non sia scoccato il suo ultimo giorno”. La parabola di un figlio che provando l’infelicità arriva alla catarsi si è compiuta.
Diana Morea