Inaugurato Rosso, il cartellone del Teatro Regio di Torino: “Francesca Da Rimini” di Zandonai ritorna dopo trentaquattro anni nel luogo del suo battesimo

Il Teatro Regio di Torino riapre i battenti e inaugura Rosso, la promettente quanto lungimirante stagione 25-26, con Francesca Da Rimini di Riccardo Zandonai, assente in cartellone da più di trent’anni eppure tenuta a battesimo sempre al Regio, il 19 febbraio 1914. Il 10 ottobre c’è stata la prima delle prime, ma noi abbiamo assistito a questa armoniosissima rappresentazione anche l’8, con l’Anteprima Giovani aperta al pubblico. Se c’è una sfida intellettuale che questa istituzione sabauda ed europea sembra aver accettato, è quella delle riscoperte. Lo abbiamo sostenuto anche in passato (con Manon Manon Manon dell’anno scorso e La Juive dell’anno prima, ma non solo), e qui ritroviamo una nuova dimostrazione del giusto processo di approfondita ricerca nel teatro e nella lirica, che al netto di qualunque disfattismo può risultare una scelta vincente: il pubblico, d’altronde, coltiva la curiosità solo se l’offerta lo consente. Cosa c’è oltre Verdi, Puccini, Rossini? C’è per esempio questo singolarissimo artefatto musicale, Francesca Da Rimini, col quale possiamo comprendere alla perfezione il Decadentismo degli anni Dieci: nel libretto di Tito Ricordi, intelligente riduzione del pomposo dramma dannunziano (sul quale un giovane Pirandello dichiarò: Credo di non aver mai sofferto tanto a teatro), c’è dunque un lessico arcaico a più riprese (noi ci siamo segnati giusto l’arcadore in gualdana, ma ci sono decine di sollazzi parolai), e tuttavia la trama è quasi un fotogramma, quindi ci si può concentrare, o lasciarsi andare, alle suggestioni di una musica fertile, ingegnosa, prova della grande intraprendenza e dell’internazionalità di chi l’ha pensata. Peraltro, è sufficiente ricordare l’essenziale del canto V dell’Inferno per gioire di una storia archetipica, che non necessita spiegazioni: un episodio totalizzante e verista, una fonte d’ispirazione per numerosi artisti che qui s’intreccia e si esprime tramite una partitura affine in primis al Tristano e Isotta di Wagner, e poi ascoltando meglio ecco Debussy, Strauss, e l’ultimo Puccini.
Senza dubbio, il successo di queste serate si deve all’appassionata concertazione di Andrea Battistoni, direttore musicale, ma quello che non si può scordare è l’assetto estetico e recitativo: asciugando tutto il superfluo, nel grande bianco e vuoto che è quasi sempre la scena, dei cantanti si coglie molto più brillantemente qualunque gesto. Andrea Bernard, il regista, riambienta la vicenda in un indefinibile secondo Ottocento, in un glaciale interno borghese dove fioccano servi servilissimi, controparti bambine in un doppiofondo scenico, pesantissimi veli, uncini come spade di Damocle, una casetta delle bambole, e statue color ferro che scivolano dentro e fuori. Le scene di Alberto Beltrame, quanto i costumi di Elena Beccaro, costituiscono un impianto piuttosto modaiolo, nel senso che non è raro imbattersi in un arrangiamento visivo di questo genere, ma a volte forse vanno di moda le cose giuste? Per riequilibrare, comunque, la regia produce una serie di immagini e situazioni che lasciano il segno per vividezza, precisione, e… amenità? Il prato su cui Francesca e Paolo s’incontrano per la prima volta, per dirne una, è un ottimo inserto, quasi un personaggio: muovendosi fra buio e luce (Nemica ebbi la luce, amica ebbi la notte, ci dice Paolo), questo tappeto vivo e botanico si fa entità magica in grado di appagare e rasserenare. Si gioca di sguardi, nel silenzio: come spiega il regista nel suo testo sul libretto di sala, è il primo incontro tra i protagonisti dell’opera, tra gli amanti cui Dante Alighieri ha assicurato un posto nell’empireo dei grandi personaggi del mito… e questi non cantano? Né D’Annunzio né tantomeno Zandonai si azzardano a trovare parole o canto per esprimere il vortice di amore a prima vista… Ciò che non può la voce umana, allora, ce lo racconta l’orchestra, arricchita persino dal suono del liuto. La scena si scoperchia più volte nel suo fondale, e così entra il giullare travestito da maialino; poi il letto di lei, dello stesso rosa cipria di molti dei costumi; e ancora il fuoco dei combattimenti fra Guelfi e Ghibellini, col coro che si affanna. Fondamentali e ben studiati sono i giochi di luce di Marco Alba: lo spazio s’illumina per la prima volta (grazie ad un faro sulla destra) quando le amiche dicono alla protagonista che dal balcone può vedere il suo futuro marito. E poi il bianco delle pareti si fa grigio e purpureo per la festa di Calendimarzo con le sue viole e la deliziosa coreografia di Marta Negrini, piacevole come una miniatura smaltata. In questo contesto, la prova degli interpreti merita davvero ogni complimento: Roberto Alagna, tenore, è Paolo con ogni nervo del busto e dell’ugola, la dizione impeccabile, il guizzo posato del cantante espertissimo. Barno Ismatullaeva, Francesca, dona invece una recitazione molto estera, per così dire, lontana dall’accoramento che noi tanto perseguiamo: la sua è una prova tecnica sul raggiungimento della perfezione vocale e sulla resa dei dettagli che se ai miopi apparirà impersonale, ad un’analisi più attenta risulterà invece un esercizio di stile basato su di un’arguta superiorità all’immedesimazione. Se Francesca è un’ideale, e lo è amando chi non può amare nella cornice del Cristianesimo, servono un corpo e una voce che mirino a proiettarla nell’eternità. Con loro ci sono Matteo Mazzaro, Malatestino; George Gagnidze, Gianciotto; Silvia Beltrami, la serva Smaragdi; Valentina Boi, Samaritana; David Cecconi, Ostasio; Valentina Mastrangelo, Biancofiore; Albina Tonkikh, Garsenda; Martina Myskohlid, Altichiara; Sofia Koberidze, Donella.
Ci sarebbero ancora tantissimi fatti da riferire, ma lo spazio stringe. Nel complesso si è trattato di un’occasione teatrale di alto livello che, volendo, avrebbe potuto essere ancora più audace. E però il fatto stesso di risuscitare una musica come quella di Zandonai è un atto di gloriosa e impareggiabile abnegazione. Il viaggio del Regio prosegue con Il ratto dal serraglio e Roberto Bolle in Caravaggio.
Davide Maria Azzarello











