Fortuna bellezza e sofferenza. Tindaro Granata torna a Torino con due testi superlativi: il primo e l’ultimo

Dopo oltre quattrocento repliche, Antropolaroid di Tindaro Granata continua a stupire, insegnare e divertire sotto l’egida autorevole di una commozione antica, sia ellenica che gotica, esperita per capillarità dal creatore allo spettatore, il quale contribuisce attivamente alla creazione di un’atmosfera specifica entro la quale si compie la magia. Anche per noi non è la prima volta, ma in quest’occasione (conoscendo già i contenuti) ci siamo potuti concentrare su tutto il resto: la potenza dei gesti e delle voci, la gestione dello spazio, la circolarità delle trame, dei significati e del tempo, fino al passaggio da un personaggio all’altro per mezzo di una semplice felpa indossata in modi diversi. Lo spettacolo è breve ma densissimo; in un’ora e venti appena si snoda un secolo di storia familiare: dal bisnonno Francesco a Tindaro.
La stagione torinese di Fertili Terreni volge al termine: manca solo Ballroom, il 18 maggio, al Cimitero di San Pietro in Vincoli. Antropolaroid, prodotto da Proxima Res, è stato il terzultimo appuntamento, 6 e 7 maggio, mentre il penultimo è stato Vorrei una voce, sempre di Granata con Proxima Res, l’8 e il 9 maggio; entrambi al Cubo Teatro, negli spazi di Off Topic. Un’occasione unica, insomma, per scoprire una poetica specifica tramite il primo e l’ultimogenito; l’inizio e la creatura recente. Vagito e urlo. E sebbene trattino di argomenti differenti – la Sicilia e la genitorialità per il primo, le donne detenute nel secondo – c’è qualcosa che scorre, fra le due produzioni, agendo da specchio o da portale; così l’una si riversa nell’altra innanzitutto per citazioni e sottili convergenze. Volendo poi individuare alcuni dei cardini grazie ai quali i due spettacoli s’intrecciano, in primis si può notare la propensione naturale di Granata per l’esplorazione del femminile inteso come la forza che serve per avere cura di persone e cose. Come in Antropolaroid le antenate di Tindaro sono figure comprese nel loro ruolo finché la vita le costringe a uscirne per imbracciare l’ignoto, che sia da vedova prematura o emancipata fuggitrice poi forse in parte pentita; in egual misura le carcerate di Vorrei una voce hanno molto da insegnarci proprio in virtù della femminilità negata e poi però rivendicata seguendo altre strategie, inevitabilmente innovative. Diretta conseguenza: anche gli ambiti maschili (quindi la grinta, l’abnegazione, l’autorità) non sempre sono binari semplici da percorrere, e che succede a un maschio quando non ha più la salute di un tempo, o se non trova un lavoro, o se non ha soldi? Nella ferita che si squarcia fra questi due gruppi, separati proprio perché siamo così stupidi da fingere di non capire che non esiste alcuna cesura, germina e fiorisce quello che Granata vuole trasmetterci. Un dubbio, una speranza, un po’ di fiducia.
1925: Francesco Granata s’impicca perché ha un tumore allo stomaco e il medico gli spiega che se non ha soldi per curarsi al massimo può fargli avere della morfina in cambio di qualche cosa di campagna… olio, ricotta, formaggio. E di questo male si muore subito o chianu chianu, dottoreddu? Ah, si muore piano piano. Va bene, baciamo le mani. La moglie Concetta, incinta, è sulla tomba del marito ma non ha né crisantemi ne ciuri di Francia per lui. Solo bestemmie. Il figlio di Francesco, Tindaro (nonno del nostro Tindaro) s’innamora di Maria Rosa Casella, che però è promessa a un ufficiale germanisi (tedesco) e quindi i due fanno la fuitina (scappano insieme). Lei però sa l’italiano e per questo motivo tutti in paese dicono che è una puttana, e così lui la gonfia di botte. Poi, durante la notte nivura del ‘48, Tindaro-nonno viene coinvolto in un omicidio di mafia, ma quando l’attore sta per dirci cos’è successo davvero ecco che tuona il Magnificat di Mina, durante il quale l’attore diventa mimo impareggiabile. Nel ’45 nasce Teodoro, emigra in Svizzera e poi rimpatria per aprire una falegnameria grazie ad un losco signor Badalamenti. Nel ’78 nasce il nostro Tindaro, e il militare s’incontra col nipote del boss del paese; Patti, vicino Milazzo. Dopo due anni di servizio, Tindaro si congeda – vuole andare a Roma a fare l’attore – e cerca di convincere Tino Badalamenti a fare lo stesso, ma il ragazzo quella notte s’impicca. Tindaro-attore interpreta tutti, più sé, con una maestria e un livello di coinvolgimento che fanno venire i brividi. Impeccabile, cangiante, suggestivo. Bonus track: la zia Peppina, sorella zitella della nonna, caduta da un albero di limoni quand’era piccola e rimasta offesa nella voce e in una gamba, il che non le impediva di ballare il valzer tutto il giorno, e di insegnarlo, ca si tu balli buono trovi u maritu buono, si balli stortu trovi u maritu stortu.
E fra le esperienze maggiori dell’ultimo Tindaro c’è appunto Vorrei una voce, un monologo che attraverso i playback dei grandi successi di Mina Mazzini ripercorre le storie delle donne che ha conosciuto nella Casa Circondariale di Messina, interpretandole e omaggiandole in modi che è difficile trascrivere. Assunta, Rita, Jessica, Sonia e Vanessa sono solo nomi, ma grazie a Tindaro le loro vite si riappropriano di quella poesia che in fin dei conti riguarderebbe tutti, solo che noi non vogliamo accorgercene. Fortuna bellezza e sofferenza, una triade importante nell’altro testo, ritorna pure qui.
Davide Maria Azzarello
Foto di copertina di Manuela Giusto