Essere Umani: l’audace Lidi apre la settantesima stagione dello Stabile di Torino con Amleto

Il Teatro Stabile di Torino compie settant’anni con diciassette repliche, dall’8 al 26 ottobre, del nuovo Amleto di Leonardo Lidi, diplomatosi nel 2012 alla Scuola per Attori, che ora dirige. Tra i suoi allievi, Diego Pleuteri, qui si occupa della drammaturgia. Entrambi del tutto consapevoli della sfida sanguinosa cui costringe questa prova secolare – portare a teatro la quintessenza del metateatro – hanno scelto di cavalcare il rischio e sfruttare tutte le potenzialità socio-politiche di una figura che alberga in noi (occidentali) più di chiunque altro. Forse solo Edipo è al suo livello. Per realizzare i loro nobili propositi, Lidi e Pleuteri si sono avvalsi della collaborazione con Nicolas Bovey e Aurora Damanti, scenografo e costumista, grazie ai quali lo spettacolo ha potuto brillare per intensità visiva. Riccardo Micheletti ha curato i movimenti scenici infondendo quella truce fluidità che occorre per questo racconto di follia sopita e poi rivendicata. Infine, Damiano Augusto Zigrino e Silvia Fancelli hanno creato un indimenticabile fantasma del padre, puppet burattino carnevalesco, molto grande, snodato come uno zombie ma con l’espressione ossessa e inanimata di una triste bambola di pezza. Nel cast ci sono Mario Pirrello (Amleto), Giuliana Vigogna (Ofelia), Nicola Pannelli (Claudio), Ilaria Falini (Gertrude), Rosario Lisma (Polonio, becchino), Christian La Rosa (Orazio, Guildenstern), Alfonso De Vreese (Laerte, Rosencrantz).
È difficile non cascare nel banale quando si sceglie di dar vita agli scritti di Shakespeare. Amleto, nello specifico, è tanto inflazionato da causare struggentissime noie in tutta la penisola. Ma non questa volta. La regia, infatti, cuce insieme lembi inaspettati del testo originale per approdare ad un immaginario così coerente e stimolante da non lasciare spazio alle critiche. Si coglie un entusiasmo, una speranza quasi, nelle note di Lidi e Pleuteri per il libretto di sala: c’è l’idea, l’auspicio, che il teatro agisca da snodo verso una rinascenza sociale o quantomeno un risveglio collettivo che ci porti a nuove prospettive, nuovi sguardi critici su ciò che diamo per assodato. In questo senso è anche difficile riferire perché questa versione sia così vincente e convincente; pressoché ogni aspetto della resa soddisfa infatti quei requisiti contemporanei di difficile definizione che però in fondo tutti percepiamo, nei meandri più reconditi della nostra passione per il palco. Per questo motivo, col desiderio di rendere omaggio ad una creazione che ci è parsa di altissimo livello, ci limiteremo ad una descrizione di quello che è successo e che ci ha colpito.
Una coltre di tessuto bianco, lucido e lattiginoso, separa platea e palcoscenico irridendo i velluti rossi e le decorazioni dorate del Teatro Carignano. C’è, inoltre, fra il gradone del palco e la prima fila, un traballante ponticello, come quelle assi da cui i pirati, nei film, fanno cadere i prigionieri che non confessano: è un trampolino sul quale si attarderanno in molti. Il sipario di luce purulenta si spalanca e un globe di un bianco mille volte più accecante investe gli spettatori. Sparsi nella cavea, i personaggi appaiono statuari, eterei, nel clima teso dell’apparente incorruttibilità con cui si presentano al mondo. Tutti incipriati, guardano l’orizzonte che non c’è. Amleto porta un parruccone corvino fra Carmelo Bene e Edna Mode della Pixars, indossa un grembiule da scolaretto e, fra una flatulenza e l’altra, si lagna sin da subito col tono del saggio impazzito. Lo zio Claudio è una macchia di sangue in movimento: la sua veste rossa è una trovata perfetta, come il sorriso grottesco cui non rinuncia mai. Gertrude, la regina, è una cosetta piccola piccola costretta in una gorgiera affilatissima, stelo senza bocciolo; vuole schermarsi dalle responsabilità con l’ignavia: non sa confortare; non sa essere madre, in breve. Pure Ofelia, goffa e insieme delicata, è avvinta in una larga e scomoda gorgiera, ma in più indossa un involucro a forma di uovo che si apre come il corpo di un coleottero: canta Dos gardenias para ti / A tu lado vivirán y se hablarán / Como cuando estás conmigo, di Isolina Carrillo. Rosencrantz e Guildenstern (Rose&Catz) sono due cortigiane tentatrici pronte a soddisfare il re usurpatore, due sirene pacchiane con delle ridicole tettone posticce. Il fulcro della storia, come tutti sanno, è la pièce-trappola che Amleto inscena per sconvolgere lo zio fratricida, e allora ecco che il protagonista sceglie due persone dal pubblico per interpretare Claudio e Gertrude. I due spariscono per un po’ dietro le quinte e riappaiono al centro del teatro nel teatro nel teatro per leggere poche battute in un microfono, e così si compie in maniera magistrale la magia della quarta parete che si sbriciola, sfuma, collassa, e ci guardiamo allo specchio. Siamo tutti Amleto, ma qui due persone (a sera) se lo ricorderanno grazie ad una terapia d’urto senza eguali: nella serata del 9 ottobre, alla quale siamo stati invitati, Amleto ha scelto un anziano signore nelle primissime file che doveva essere un critico perché stava prendendo appunti, il quale all’inizio ha tentennato ma poi si è lasciato convincere, e una fanciulla che invece non ha esitato un attimo. Entrambi hanno dovuto recitare sotto lo sguardo attento e indagatore degli attori “veri”, molti dei quali famelici come se avessero di fronte una preda. Il pubblico, stavolta tutto, è chiamato a ripetere in coro Trattali bene gli attori, perché sono l’essenza di un’epoca!
Davide Maria Azzarello
Fotografie di Lugii De Palma









