Esiodo e le macchine: il collettivo belga FC Bergman presenta “Work and Days” alle Fonderie Limone di Moncalieri

Secondo Esiodo, dopo l’era di Crono e quella di Zeus, dopo l’età del bronzo e degli eroi, viene l’età del ferro, in cui viviamo ancora oggi. È un momento di sofferenze e indifferenze, del trionfo dell’ingiustizia, in cui gli uomini si sono autocondannati a lavorare per sopravvivere. Siamo la stirpe della tecnica e della tecnologia, siamo i figli delle macchine, ed è per questo che siamo dannati. Abbiamo scoperto l’agricoltura, l’allevamento, l’architettura, l’addomesticazione, e quasi subito abbiamo inventato le storie, i miti, e quindi la religione e le scale valoriali che trascendono i popoli, nel senso che alla fin fine tutti cadiamo negli stessi errori, nelle stesse confusioni, in un egoismo condiviso e trasversale che lascia solo macerie. E ora, cosa ci rimane? Forse permangono le ideologie, le leggende, e certe speranze; ma l’ultima produzione del collettivo belga FC Bergman non concede terreno al presente, né al futuro, perché l’Apocalisse che temiamo in realtà è già avvenuta, si è già consumata e noi non volevamo accorgercene, anche adesso non vogliamo pensarci, e così galleggiamo nel brodo tiepido e catramoso della contemporaneità tronfia e in espansione: non c’è Futuro perché non riusciamo a immaginarlo, non c’è Passato perché ci sentiamo troppo superiori per ricordare, studiare, celebrare. Attorno e dentro ai nostri corpi, come fra le vie dei nostri agglomerati urbani, si avviluppa un eterno presente incerto che condanna all’immobilità. E allora forse ci rimane solo l’ombra delle Opere – ovvero le cose fatte da chi c’era prima di noi – e dei Giorni – ovvero la consapevolezza che lo spaziotempo scorre – e su questi due granitici e insieme pallidi pilastri possiamo ricostruire, ma soprattutto salvarci.
Work and days, ispirato da Le opere e i giorni di Esiodo (VIII sec a.C.), è una straordinaria e vigorosa performance sulla storia dell’umanità; una magia concreta ma visionaria e immaginifica sulle derive valoriali che ci caratterizzano, specialmente dalle industrializzazioni in poi. Gli interpreti interagiscono e costruiscono e distruggono senza proferire parola (se non fra di loro), dominando lo spazio ora con leggiadria ora con autorevolezza. Non tralasciano la violenza ma anzi la rappresentano senza indugi. Sul palco è stato montato un altro palco in legno nero, i sei attori entrano all’improvviso e con un aratro-ariete squarciano quel campo per seminarlo con tanti coriandoli; tutti raccolgono e smistano i frutti (pezzi di legno rossi, gialli, blu e verdi). Una gallina ha fatto l’uovo, ma forse conviene mangiarsela: viene chiusa in un sacco e sbattuta ripetutamente a terra (nessun disclaimer perché il pennuto non muore davvero: viene sostituito all’ultimo secondo, ma almeno quattro persone nel pubblico non capiscono e se ne vanno con fare polemico). Il sacco con la gallina viene legato alla pancia di un’interprete, che come gli altri collabora alla creazione di una casa, una struttura senza pareti tirata su con assi e corde. Il pubblico è assorto, coinvolto, rapito. Un’elefantessa partorisce una bambina, le due vengono separate e l’animale viene sacrificato: tutti decorano la casa con nastri e stoffe eviscerate dalla carcassa della bestia, poi la bambina le rimuove per farcisi una veste in cui s’imbozzola. La casa crolla al rallentatore. In un secondo atto, ecco il tempo delle macchine: un grande congegno simile a una locomotiva e ad un trasformatore è immobile al centro del palco sul palco, nella penombra e nel fumo. È l’automazione, la fabbrica, il consumismo. Gli umani, ormai nudi, fra i vapori e le nebbie, ne sono affascinati e poi avvinti; la sfiorano, l’accarezzano, la cavalcano come un toro meccanico. Una giovane donna s’impiastra languidamente del liquido nero e denso che spurga dal serbatoio del marchingegno. Sipario. Piove sul terreno che in apertura è stato divelto per la semina: un’unica donna, più vecchia e vestita, si barda ancor di più e riprende con fatica l’aratro per recuperare qualcosa, qualunque cosa. Ma è sola, è anziana, è stanca; gli altri stanno slombati e indolenti a contorcersi attorno alla macchina. Cosa ci rimane? Forse nulla. L’impresa fallisce. L’aratro s’impantana nel fango sterile, da cui ormai si possono estrarre solo piante morte, e sprofonda sempre più. Alla fine di tutto, i personaggi sono andati oltre: il sipario si è rialzato, la macchina è ascesa e una nuova luce scalda l’atmosfera. Sul palco c’è un grande tappeto coi colori dell’arcobaleno: l’anziana guadagna il centro e si siede per terra. È estenuata. Attorno a lei, i corpi degli altri paiono addormentati. D’un tratto e poi per gradi, il palco esplode grazie ad un sistema di bombe controllate che fanno saltare le assi di quello che pareva solo un tappeto e dal quale invece spuntano tanti ananas di plastica. Quando tutto sembra finito davvero, entra un cane robot, saluta l’anziana e infine acceca il pubblico con un faro.
Si potrebbero avanzare infinite ipotesi sui significati evidenti e nascosti di questa operazione teatrale, ma in verità è sufficiente dichiararne la grandiosità e l’autorevolezza, poiché raramente capita di assistere o di vivere esperienze di questo tipo, dove in primis si abbandona la parola per lasciare spazio al gesto e alla comunicazione non verbale, azzerando così gli annosi problemi di lingua e traduzioni/tradimenti che spesso le drammaturgie esacerbano invece di risolvere. FC Bergman – nato nel 2008 con Stef Aerts, Joé Agemans, Bart Hollanders, Matteo Simoni, Thomas Verstraeten e Marie Vinck; e dal 2013 residente al Toneelhuis di Anversa – è una realtà unica e in qualche modo anarchica, per noi italiani avvicinabile forse all’estetica di Castellucci, che merita d’essere intercettata soprattutto da chi a teatro non ci va mai. C’è infatti, nel loro modo d’intendere il teatro, un energico e propositivo rinascimento col quale si garantisce una fruizione democratica dei contenuti: per capire basta usare il cuore e non (solo) le orecchie, mentre con gli occhi si potrà intuire quanto effettivamente esiodei ed analogici siano; quanto lavoro e quanta dedizione e quanto sudore deve esserci dietro una creatura del genere.
Regia, sceneggiatura e scenografia sono di Stef Aerts, Joé Agemans, Thomas Verstraeten e Marie Vinck; gli interpreti sono Stef Aerts, Joé Agemans, Maryam Serwamukoko, Yorrith De Bakker, Marie Vinck, Fumiyo Ikeda, Geert Goossens e Bonnie Elias; mentre le musiche e il canto dal vivo sono di Joachim Badenhorst e Sean Carpio. La produzione è di FC Bergman e Toneelhuis in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Les Théâtres de la Ville de Luxembourg e con il sostegno della Tax Shelter del governo federale belga. Noi abbiamo avuto il piacere di assistere alla prima delle sole due repliche torinesi, il 3 e il 4 giugno alle Fonderie Limone di Moncalieri, ma c’è ancora l’occasione di vederli al Teatro Verdi di Salerno (21 e 22 giugno), al Lyceum di Edinburgo (dal 7 al 10 agosto) e a Bruges (il 9 dicembre).
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Masiar Pasquali