Darwin, Nevada. Per un teatro che semina e innesca

I titoli, di solito, funzionano come serrature per chi legge: si cerca la chiave, la si inserisce in un determinato verso, il meccanismo scatta. Con Darwin, Nevada le cose vanno altrimenti: Marco Paolini, nei panni del Narratore, ci mette fin da subito in guardia. Infatti il primo tentativo (non può che trattarsi di Charles Darwin, lo scienziato con la barba bianca, quello de L’Origine delle specie) fallisce, la chiave inciampa nella virgola; una seconda idea, estratta dal mazzo dopo una frettolosa ricerca (Darwin come toponimo, da qualche parte negli Stati Uniti) sembra in grado di portare in asse il congegno – tuttavia il luogo si trova in California, non in Nevada. Qualcosa rimane ostinatamente disallineato rispetto al resto, ed è proprio grazie a questa tensione interna che lo spettacolo spicca il volo.
Il baricentro narrativo è rappresentato da una coppia di quaderni rilegati in pelle, coperti di appunti e di schizzi, forse l’ultima testimonianza concreta di come un’idea complessa può farsi strada nella mente di un individuo. Dovrebbero essere custoditi insieme a milioni di altri manoscritti e libri rari, invece eccoli lì, su un tavolino con lampada a margine del palcoscenico; allo stesso modo le due ragazze (interpretate da Cecilia Fabris e Clara Bortolotti) dovrebbero trovarsi nel bel mezzo di un festival da sballo nel deserto anziché alla guida di un caravan inzaccherato di fango, sabbia e tracce di sangue; cosa ci faceva un marinaio lesto di mano e con il cervello che rumina nei meandri della Cambridge University Library? Che ne sarà della sua amata (Stella Piccioni) a tu per tu con un buffo sceriffo (Stefano Moretti) nella minuscola città di frontiera dove la coloratissima migrazione delle farfalle monarca forse non arriverà più? Ed infine, ora, in quante virgole inciampa un pensiero ferocemente laico come quello di Charles Darwin nell’America profonda dove, sondaggi alla mano, il 40% della popolazione si riconosce nell’ortodossia creazionista (secondo cui Dio ha creato Adamo ed Eva diecimila anni fa) e un altro 40% ammette un certo grado di evoluzione, ma solo restando all’interno degli inviolabili bordi di un disegno divino? Da spettatori siamo dunque spinti a osservare molto da vicino, e con attenzione, tanto le chiavi portate in tasca quanto le idee in testa.
Una complessità estremamente vivida, una realtà in cui gli eventi veri e quelli inventati procedono secondo vie inaspettate, talvolta anche controintuitive. Decisivo, in questa produzione, il reciproco mettersi in ascolto e in moto tra Marco Paolini e Matthew Lenton, che firma la regia. Due mondi teatrali molto differenti, quasi agli antipodi, ma che una volta entrati in contatto hanno stabilito un dialogo e messo ciascuno del proprio in qualcosa che non è più solo dell’uno o dell’altro: la forza evocativa del teatro di narrazione, unita alla concretezza visiva e percettiva, è in grado di seminare idee senza scadere nel didascalismo e lasciando intatto il guscio di immaginazione. Formidabile impasto di scrittura e messa in scena a più mani, Darwin, Nevada è un progetto ambizioso che innesca molte connessioni con le problematiche del nostro tempo senza mai ridursi a teatro didattico e senza la pretesa di impartire una lezione morale. Come ben sintetizzato dagli interpreti nel vivace scambio con il pubblico di Trento in sala Anna Proclemer, ogni esperimento può validare l’ipotesi iniziale oppure può fallire, tuttavia “resta il fatto che chi viene a teatro può vedere l’esperimento farsi davanti ai propri occhi”. “L’idea” aggiunge Paolini “nasce da un comitato di signori scienziati che si sono domandati se e come sia possibile raccontare di nuovo la figura di Charles Darwin… ed è una vera sfida, perché c’è un intero campo di affermazioni e implicazioni del lavoro di quest’uomo di due secoli fa che ancora oggi continuano a risultare fastidiose, difficili da sopportare».
Visto al Teatro Sociale – CSC Trento, giovedì 20 febbraio 2025.
Pier Paolo Chini
Fotografia di Masiar Pasquali