Azzardo e destino: “La dama di picche” di Graham Vick e Sam Brown al Regio di Torino

Siamo già arrivati, purtroppo, al terzultimo appuntamento della stagione di opera e balletto del Teatro Regio di Torino, che quest’anno ci ha regalato alcune piacevoli sorprese. Mancano solo Hamlet di Ambroise Thomas, a maggio, e Andrea Chenier di Giordano a giugno. La scorsa settimana invece abbiamo avuto il grandissimo piacere di assistere all’ultima delle sei repliche de La dama di picche, penultima opera di Pëtr Il’ič Čajkovskij, che la considerava il suo capolavoro. Composta nel 1890 all’Hotel Washington di Firenze, contiene passaggi travolgenti ed esodi trionfalistici sposati ad una trama che Modest, il fratello di Pëtr, riadattò dall’omonima novella di Aleksandr Puškin cambiando però il peso specifico di un elemento cruciale: le ragioni che muovono German, il protagonista. Siamo nel Giardino d’Estate a San Pietroburgo, alla fine del Settecento. Un ufficiale povero, ambiguo e ambizioso, racconta al conte Tomskij di essersi innamorato di una che non conosce, e l’amico gli fa notare che questo sentimento non è da lui. Si unisce il principe Eleckij, che si è appena fidanzato con la ragazza in questione, Liza, la quale poi passa da lì in compagnia della nonna, contessa la cui figura ricalca forse Madame de Chatelet. Tomskij riferisce dunque, in una lunga analessi, la storia leggendaria che pesa sulla vecchia contessa da tutti chiamata dama di picche. Quand’era giovane e bella e viveva a Parigi, la contessa si era indebitata col gioco e un principe, in cambio di una sola notte insieme, le rivelò il segreto per rifarsi delle perdite con tre carte specifiche. Poi la contessa si confidò col marito e con l’amante, quando le apparve uno spettro che le vaticinò la morte per mano del terzo uomo a cui avrebbe rivelato il segreto. Fine del flashback. German si ripromette di salvare Liza da Eleckij, o di perire nel tentativo. La ragazza, ovviamente, non è contenta dell’unione, e viene raggiunta da German, che le rivela i suoi sentimenti. Lei ricambia. Il secondo atto si apre con un ballo in maschera a cui presenzia anche Caterina II. German, alla festa, riflette su quante possibilità gli si aprirebbero se ottenesse il segreto delle tre carte: potrebbe sbancare e fuggire con Liza. La giovane gli consegna una chiave per entrare nella sua camera, quella sera. Lui va ma deve attraversare la stanza della nonna, si perde a guardarne il ritratto e quella sopraggiunge con cameriere e dame al seguito. German si nasconde, la donna rimane sola e allora lui esce all’improvviso e le chiede qual è il segreto per vincere a carte. La minaccia con una pistola, a lei prende un colpo e muore. Arriva Liza, che scaccia German. Nel terzo atto, il fantasma della contessa appare a German mentre lui è in caserma: finalmente gli rivela che le tre carte sono il tre, il sette e l’asso, e che tuttavia vincerà solo se sposerà Liza. Potrebbe andare tutto bene, insomma, però il protagonista impazzisce e respinge l’amata, che si getta nel canale.
La regia di questo spettacolo avrebbe dovuto essere di Graham Vick, ma la pandemia lo ha impedito. Sam Brown ha raccolto il testimone per donarci una resa sfaccettata, ossessiva e ossessionata, densa di un verismo granitico per il quale ogni personaggio tenterà di sfuggire al proprio destino senza riuscirci. La messinscena è sontuosa, a primo acchito, poi si stratifica in un disordine compunto: per esempio la scena di Stuart Nunn, che ha firmato anche i costumi, è un arco concavo di pannelli bianchi simili a delle lesene girevoli che lasciano intravedere i cieli fuori dal palazzo, ma è anche un’arena, o una Plaza de Toros. Al centro, un grande cancello barocco di ferro nero sormontato d’oro. Dentro di essa vale tutto: doppi sipari bordati di neon, proiezioni in bianco e nero durante i flashback; la festa in maschera come un’orgia mimata (le coreografie sono di Ron Howell), e quando dovrebbe arrivare Caterina ecco invece, e di nuovo, la contessa. È una regia ambigua, tracotante, non solo per scelte singolari come l’omissione dell’intermezzo sulla fedeltà della pastorella, ma per la volontà esplicita e lampante di delimitare nuovi confini per le figure che hanno dei ruoli attivi. Fra tutti, la contessa diventa una snob affascinante e per niente impaurita, una regina di ghiaccio al di sopra dei sentimenti umani che però ancora si concede il lusso di giocare con la sensualità.
Alla guida dell’orchestra c’è Valentin Uryupin, maestro russo per un’opera in russo, il quale ha svolto un lavoro impeccabile col cast, sebbene il coro diretto da Ulisse Trabacchin abbia gestito ancor meglio spazio, tempi e corpi. La produzione è del Regio in collaborazione con la Deutsche Oper Berlin.
Davide Maria Azzarello
Fotografia di Mattia Gaido